Detesto quelle teorie declamate senza pietà. Quelle che calano come coltelli, affettano la realtà e le persone. Quelle che non vedono la sofferenza ma anzi la disprezzano. Non vedono i singoli, ma solo i numeri. Non vedono bambini, adulti, famiglie, storie, ma solo le statistiche. Detesto chi le impugna non per migliorare qualcosa, alleviare una sofferenza, ma per potere, soldi o per esibire la propria conoscenza. Odio il modo in cui fanno sentire, il modo in cui rendono la concretezza delle persone meno importante della labilità delle idee, e ne diffido, perchè ho sempre pensato che le idee cambiano, alcune ferite lasciano il segno.

E non mi piace che a volte, di fronte alla sicura presunzione di chi le utilizza, mi sento disarmato. Mi trovo senza parole, non so reagire a chi dice – dovremmo rigettarli tutti in mare! – la storia di quel paziente non ha valore per la scienza, è un caso isolato! [1] – non so come si faccia a dire certe cose senza arrossire, per la consapevolezza che stiamo parlando di persone, che ci potresti essere tu su quella barca, su quel lettino, su quel banco degli imputati.

E cerco di ricordarmi che anche questo è solo il mio modo di vedere il mondo, che il giudice di chi giudica è pur sempre un giudice, il censore dei censori è pur sempre uno di loro.

Ma non sempre ci riesco.

[1]Naturalmente, in alcuni casi, ricercatori digiuni di qualsivoglia base di filosofia della scienza confondono “scienza” con “statistica”. Sono così impregnati di studi statistici che pensano che il numero ed il numerato siano la stessa cosa, riducendo la scienza all’analisi computerizzata delle tabelle dei dati – una scienza ben povera, che rinuncia allo strumento che ha creato i numeri, le tabelle, la statistica e la scienza stessa: l’intelletto umano. Fortunatamente altri scienziati, più curiosi ed eclettici (spesso gli stessi che danno i contributi di maggior qualità), ci restituiscono un’immagine più dignitosa della scienza e del loro mestiere.